S. Rosalia Vergine – Bivona (AG)
Un culto che si perde nei secoli passati, un misto di storia e leggenda, di sacro e profano che oggi, come più di 600 anni fa, si ripete ancora una volta. Il 4 settembre per i palermitani è il giorno in cui si celebra la festa religiosa di Santa Rosalia con il pellegrinaggio a piedi sul monte Pellegrino. Ma c’è un culto, nel cuore della Sicilia, a pochi chilometri dal bosco della Quisquina, che si perde nella storia siciliana del tardo medioevo.
Era infatti il 1375 quando tutta l’isola fu colpita da una grave pestilenza. In una notte di quel tempo, scriveva il rettore dei Gesuiti di Bivona padre Bernardino Lanfranchi, «Santa Rosalia comparve ad una vergine e dopo alli giurati, dicendoli li fabbricassero una chiesa, che subito passerà la peste». La fanciulla, che si trovava in un torrente a lavare alcune tele, si prodigò affinché si realizzasse la chiesa, ma in un primo momento non si diede peso all’evento, anche perché il luogo dove si doveva costruire l’edificio si trovava in un terreno poco adatto. L’anno dopo la Santa riapparve nuovamente ai giurati dicendo: “Io vi mandai a dire l’anno passato che mi faceste qui una chiesa perché la peste passi, fabricatemi questa chiesa che io mi chiamo Santa Rosalia” (Sparacino, 1650, pag.52). Consultato il vescovo, si diede il via alla costruzione della chiesa: non appena si iniziarono a edificare le mura la peste scomparve.
È difficile trovare un confine netto fra la tradizione tramandata e gli scritti, talvolta non concordi sulle datazioni precise, ma esistono degli episodi che in qualche modo ne provano l’attendibilità. Un ulteriore incentivo al culto verso la Santa risale, infatti, ad un’altra ondata di pestilenza, quella del 1575-76. In quegli anni i bivonesi si affidarono subito a Santa Rosalia, com’è testimoniato dall’imposizione del suo nome sulla quasi totalità delle bambine battezzate all’epoca. Ancora una volta le venne attribuito il merito per la cessazione del male, e le entrate della confraternita di Santa Rosalia aumentarono notevolmente (Marrone, Storia delle Comunità Religiose e degli Edifici Sacri di Bivona).
Nel 1601, circa un ventennio prima del noto miracolo palermitano, il sacerdote bivonese Ruggero Valenti, all’età di 80 anni, per espiare un grave peccato scolpì il fercolo e la statua di Santa Rosalia, ad oggi custoditi nell’omonima chiesa a Bivona. Il fercolo, dove sono state scolpite quattro scene di vita della Santa, viene portato in processione ogni anno il 4 di settembre. Si tratta di una delle opere più antiche della santuzza, se si pensa che prima del culto palermitano in Sicilia la sua devozione era quasi del tutto scomparsa. Sia il fercolo che la statua sono in legno e quasi interamente ricoperte da lamine d’oro, ad eccezione del volto e delle mani della statua. Nelle colonne che reggono il baldacchino sono incastonate figure grottesche di putti, draghi, angeli, figure mitiche e figure ignude alate a metà tra angeli e cariatidi, in un binomio sacro-profano che da sempre accompagna la tradizione della vergine.
Ancora adesso la “vara” mantiene la sua antica funzione: nel tardo pomeriggio del 4 settembre di ogni anno, viene portata in processione, per le vie del paese, rigorosamente a spalla da una quindicina di fedeli. Caratteristico è il suono dei 16 campanellini che ornano l’opera dal chiaro valore scaramantico: la loro funzione era quella di scacciare gli spiriti maligni.
«La Vara di S. Rosalia è un vero capolavoro di scultura lignea siciliana del ‘600 e un fine esempio della cultura tardomanierista», spiega il dott. Salvo Tornatore «seppure guastata da numerosi restauri e ridipinture che si sono succeduti nel corso degli anni (1879, 1982, 1986)».
Un momento particolare è rappresentato dalla “scinnuta” del fercolo dall’altare, che viene effettuata subito dopo la messa solenne delle ore 11,00. Durante questa occasione la piccola chiesa è gremita di fedeli che attendono il buon esito del delicato momento, che termina con il grido “viva Santa Rosalia”. All’interno della chiesa è anche possibile osservare il tronco cavo della quercia dove, secondo la tradizione, la santuzza si sarebbe rifugiata per sfuggire alle persecuzioni dei conti e dei baroni contro i normanni.
Testo a cura del nostro collaboratore Fabio Brocceri
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Foto a cura del nostro collaboratore Roberto Di Miceli